Annapurna III, SE ridge, credit planetmountain.com |
Noto come alcuni film sulla montagna, con la loro curata fotografia, lo spazio lasciato alla musica del vento, mi fanno commuovere senza possibilità di resistenza. Questo corto, oltre alla commozione, mi ha sollevato molte altre emozioni e riflessioni.
Ora, gli amici alpinisti potranno odiarmi per quanto sto per dire…
I bravissimi protagonisti mi sono simpatici, ero lì con loro nella loro ansia, sogni, timori.
Eppure io spero che Annapurna III resti inviolata.
La mia è una riflessione sul limite che in qualche modo non è lontana dal problema del nostrano famigerato "progetto Translagorai" che sta dividendo in aspre fazioni l'opinione pubblica.
Il senso del limite simboleggiato dalla vetta è qualcosa che si perde nella notte dei tempi. Prendiamo Uluru, chiamata Ayers Rock dai bianchi, la roccia di arenaria rossa sacra agli aborigeni australiani che da sempre ne hanno fatto un simbolo.
Le altezze di Uluru non sono i 7555 di Annapurna III e infatti girano foto con file di ciccioni occidentali che la scalano in pantofole… mentre i cartelli messi a contentino delle minoranze aborigene supplicano di non scalarla. Per loro è come entrare in una chiesa cattolica nudi, cercando un equivalente omeomorfo che renda l’idea. Ma niente, i turisti arrampicatori non mancano mai.
Mi ha sempre colpito.
Uluru rock, credit ABC News: Rick Hind - ABC.net.au |
Oggi, nei luoghi di montagna in cui dimoro, prevale ancora un modello di sviluppo selvaggio con relativi promotori che descrivono coloro che vogliono preservare l'ultimo paradiso wilderness trentino (19mila iscritti in tre mesi al gruppo facebook "giù le mani dal Lagorai") come “pazzi estremisti”, che vogliono solo “bloccare il progresso”.
Ma la nostra non è un'epoca in cui prevale un mondo disabitato dove vi sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Oggi, a casa mia, come il Lagorai c’è solo il Lagorai.
Oggi, altrove, come Annapurna III c’è solo Annapurna III e la sua gloria e maestosità.
E la ricerca dell’invincibilità umana, la sua possibilità di superarsi, a un livello sistemico e culturale si è ormai tramutata in arroganza.
Non mi riferisco ai sogni di un alpinista, vado ben oltre.
Tutti i nostri simboli e tutte le nostre narrazioni parlano della stessa spinta alla gloria della conquista.
Ormai dimenticato quell'antidoto che è la dimensione di sacralità immanente, se non in una piccola nicchia (di cui faccio parte), il mondo “di qua”, l’unico di cui abbiamo certezza, non fa che celebrare un unico modello di umano.
Conquista, sfida perenne, crescita esponenziale, colonizzazione, un umano al centro di questo “antropocene” dove questa energia espansiva non riesce a equilibrarsi con la sua sorella, quella contrattiva.
Eppur non è una spinta universale nell'umanità. Gli aborigeni sono esseri umani ma non hanno sentito il bisogno di scalare Uluru. Studiando altre culture indigene del mondo si trovano ovunque analoghi esempi. Sembra che questo eccesso sia culturale, proprio di quelle culture come quella occidentale che hanno creato una dicotomia tra "natura" e "cultura".
Un paio di mesi fa scrissi un post in inglese chiedendo di aiutarci a far diventare il Lagorai un simbolo. Lo stesso simbolo che vorrei per Annapurna III e per i luoghi (rari) ancora rimasti inviolati.
Il simbolo di un umano che non ha bisogno della conquista ad ogni costo, perché ha saputo riconoscere che la forza è anche nell’equilibrio, nel rispetto, nel sentirsi parte di quanto lo circonda piuttosto che separato da questo. Una cultura della natura e una natura nel fare cultura, ricomponendo la dicotomia.
Perché si crede di poter possedere ciò che è viso come oggetto, e il processo in atto è sempre più quello di tramutare il soggetto in oggetto. E’ un attimo. E con la montagna è già accaduto.
Il Lagorai come Annapurna III, che tornino "soggetto montagna", parte del nostro stesso organismo, simbolo di ciò che non tornerà più, di ciò che non può appartenere, riscoperta del limite persino come opportunità.
Serve un nuovo umanesimo in grado di gioire della piccolezza dell’umano, che, quando ritrova questa sua piccolezza senza più temerla, ritrova al contempo la sua vera grandezza.
Questo mi insegna la montagna.
Un amore che non ha bisogno di possedere. La capacità di ritornare a essere indigeni.
Ma la nostra non è un'epoca in cui prevale un mondo disabitato dove vi sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Oggi, a casa mia, come il Lagorai c’è solo il Lagorai.
Oggi, altrove, come Annapurna III c’è solo Annapurna III e la sua gloria e maestosità.
E la ricerca dell’invincibilità umana, la sua possibilità di superarsi, a un livello sistemico e culturale si è ormai tramutata in arroganza.
Non mi riferisco ai sogni di un alpinista, vado ben oltre.
Tutti i nostri simboli e tutte le nostre narrazioni parlano della stessa spinta alla gloria della conquista.
Ormai dimenticato quell'antidoto che è la dimensione di sacralità immanente, se non in una piccola nicchia (di cui faccio parte), il mondo “di qua”, l’unico di cui abbiamo certezza, non fa che celebrare un unico modello di umano.
Conquista, sfida perenne, crescita esponenziale, colonizzazione, un umano al centro di questo “antropocene” dove questa energia espansiva non riesce a equilibrarsi con la sua sorella, quella contrattiva.
Eppur non è una spinta universale nell'umanità. Gli aborigeni sono esseri umani ma non hanno sentito il bisogno di scalare Uluru. Studiando altre culture indigene del mondo si trovano ovunque analoghi esempi. Sembra che questo eccesso sia culturale, proprio di quelle culture come quella occidentale che hanno creato una dicotomia tra "natura" e "cultura".
Un paio di mesi fa scrissi un post in inglese chiedendo di aiutarci a far diventare il Lagorai un simbolo. Lo stesso simbolo che vorrei per Annapurna III e per i luoghi (rari) ancora rimasti inviolati.
Il simbolo di un umano che non ha bisogno della conquista ad ogni costo, perché ha saputo riconoscere che la forza è anche nell’equilibrio, nel rispetto, nel sentirsi parte di quanto lo circonda piuttosto che separato da questo. Una cultura della natura e una natura nel fare cultura, ricomponendo la dicotomia.
Perché si crede di poter possedere ciò che è viso come oggetto, e il processo in atto è sempre più quello di tramutare il soggetto in oggetto. E’ un attimo. E con la montagna è già accaduto.
Il Lagorai come Annapurna III, che tornino "soggetto montagna", parte del nostro stesso organismo, simbolo di ciò che non tornerà più, di ciò che non può appartenere, riscoperta del limite persino come opportunità.
Serve un nuovo umanesimo in grado di gioire della piccolezza dell’umano, che, quando ritrova questa sua piccolezza senza più temerla, ritrova al contempo la sua vera grandezza.
Questo mi insegna la montagna.
Un amore che non ha bisogno di possedere. La capacità di ritornare a essere indigeni.
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