Il mio dilemma, la mia sofferenza maggiore, è nel
realizzare quanto ogni mia cellula sia intrisa di patriarcato, o di “modello
della dominanza”, per citare Riane Eisler.
Lavoro come operatrice di spiritualità femminile. E’
un lavoro spirituale ma al contempo politico, che si prefigge di riportare nell’immaginario
culturale dei modelli di femminile che non sono più riconosciuti, e quindi
anche dei modelli sociali che non siano più basati su rapporti di “potere su” e
dominanza dell’altro. Ma, appunto, più orientati alla partnership.
Il paradosso, è che più proseguo in questo cammino,
e più i fantasmi del modello della dominanza emergono. Come in un videogioco,
più alto è il livello a cui accedi, più grossi sono i mostri da sconfiggere per
accedere a quello successivo.
Forse la metafora bellica non è proprio la più felice, in quanto
questo genere di demoni non si sconfiggono. Si accolgono. Perché le loro radici
sono in me e sono in tutte/i noi e hanno origine lontana.
Già dalla nascita, se non ancora prima, la mia
generazione non era certo esente da quelle violente pratiche di routine, che accoglievano
la nuova nata/il nuovo nato con sculacciate, sorreggendola/o per i piedi a
testa in giù invece che adagiarla/o nell’unico posto dove dovrebbe stare una
volta superata l’esperienza del parto: il ventre e il seno della madre. Veniva
e viene ancora oggi (in certi ospedali) lavata/o, sottoposta/o ad ogni genere
di controllo, vestita/o e portata/o in una nursery con altre decine di
neonate/i piangenti. Già subito chi comanda: gli orari del cibo e i modi,
decisi dai medici. Nessuna accoglienza nemmeno nel sonno, quando venivamo
lasciate/i piangere nella culla, sempre per stabilire “chi comanda”: i bisogni irrinunciabili,
scambiati per “capricci”.
Il seno della madre, quando c’era, aveva sicuro la
data di scadenza. Non più di sei mesi. Bisognava “favorire l’indipendenza”,
ignorando che un bisogno non soddisfatto non scompare: si sublima, e riemerge
in seguito, in altri modi. E la cultura della Madre si inizia a scacciare,
limitando il contatto con la madre in carne ed ossa.
Prosegue nell’infanzia con la nostra educazione. C’è
sempre un elemento culturale negli stili educativi, e in Italia i modi “della
dominanza” sono ancora oggi considerati quelli” più giusti” da moltissimi
genitori. Schiaffi e altre punizioni corporali, castighi che sono sconnessi
dall’atto commesso, e altre azioni atte a spaventare la bambina/o, sono tutti
modelli che si fondano sull’”Imparare a obbedire”. Imparare chi comanda.
Imparare che se non “mi comporto bene”, l’altro mi può fare male, fare paura, e
lo può fare perché è il più forte. Piaccia o no, è questo che passa ai nostri
figli quando li picchiamo. Chi sostiene questi metodi, crede non ce ne possano
essere altri, anzi: ogni altro metodo è confuso con permissivismo e lassismo.
Allo stesso tempo, la bambina e il bambino crescono
sovente svalutati dinanzi al proprio errore. Questa svalutazione sta nelle
frasi “sei cattiva”, “non ti voglio più bene se non fai come dice la mamma”, o
peggio nel confronto “quel bambino è più bravo di te”. Pedagogicamente, l’educatore
perde molto ad agire così. Dimentica che il suo ruolo è “essere alleato del
bambino nei confronti dell’errore”, e non “identificare il bambino con il suo
errore”.
Questi metodi sono chiamati da qualcuno PN “Pedagogia Nera”, nome
che non amo tantissimo poiché associa il “nero” al “cattivo”, e quindi all’interno
di una cornice dualista che sarebbe bene cercare di superare poiché ha fatto
già di per sé parecchi danni. Ma rende l’idea.
Il risultato è che la nostra dignità ne esce
ferita. Arrabbiata. Offesa. E talvolta, soprattutto con la pubertà, molte/i adolescenti
finiscono per assumere quelle identità negative che i genitori proiettano su di
loro. Perché ai bambini è necessario essere “visti”. Se non riescono a
mostrarsi per come sono, perché “non vanno mai abbastanza bene”, finiranno per
mostrarsi come gli adulti li nominano: cattivi, capricciosi, o persino altre
cose… La cosiddetta “profezia che si auto avvera”.
Divago all’interno dell’educazione, che è la
materia in cui mi sono formata, per arrivare a dire quanto le pratiche della
cultura della dominanza siano parte di noi dal profondo.
Quando non è all’interno della famiglia, dobbiamo
comunque prima o poi fare i conti con le istituzioni che hanno valore
educativo, che sono portatrici a loro volta di determinati valori. La nostra
scuola, tutt’oggi non incentiva la partnership.
Se quella descritta sopra è l’educazione che abbiamo
ricevuto, o comunque già il fatto di essere nate e cresciute nella cornice di
questa cultura, significa che i semi di questa sono stati piantati in noi. In noi c’è il
terreno fertile perché germoglino. E il cambiamento è affare lungo e
faticosissimo. Le emozioni in gioco sono quelle che abbiamo imparato a usare
come difesa a questo modello sin da piccole, ma che poi anche da grandi si scatteranno come automatismi. Nessuno può dirsi perfettamente esente.
Anzi.
Uno dei motivi per cui le passate rivoluzioni sono
fallite, o almeno non hanno continuato nella loro opera, come nel caso anche
della rivoluzione femminista, è che sovente dopo un “Primo periodo” in cui gli
ideali sono compresi e sposati dalle persone che diventano coscienti di uno
stato di oppressione, inizia un secondo periodo in cui si vogliono mettere in
pratica le idee: in questo livello, se si cede alla tentazione di fingere di
essere già “liberate”, già trasformate, stiamo già per fare morire il nostro
sogno. E ’un pò la tentazione di essere ben viste in questo nuovo contesto che
creiamo, ben valutate, una ricerca di riscatto “incarnando il nostro ideale
identitario”. Un pò è anche la voglia di vedere in fretta realizzato il mondo
che vogliamo. Ma che ha conseguenze disastrose perché così ricreiamo le stesse
sputate dinamiche di dominanza. Inizierà la gara a “chi è più pura”; si
formeranno le “elite” di coloro che “già sanno”; risponderà il malumore di chi “ne
resta fuori”. E via di nuovo al gioco del potere.
Invece, nessuno può affrancarsi con tanta facilità
da qualcosa che è così profondamente parte di noi. Si può lavorare molto, si,
fare moltissimi passi in avanti… ma se la cultura della dominanza si è
affermata nell’arco di millenni, forse vale la pena dire che potrebbero
volercene altrettanti per uscirne. Non può esserci fretta. Ci vuole tempo, per
costruire delle solide fondamenta: noi stiamo ancora esplorando le tecniche di
costruzione!!
Quando si “finge” di essere “libere”, succede che
si smette di mettersi in discussione. Allora il problema diverranno “le altre e
gli altri”, che “agiranno male perché ancora non sono libere/i”, e verso di
loro metteremo tutta la nostra aggressività: un’aggressività scatenata da qualcuno,
che in realtà, ci fa da specchio e da cui vogliamo distanziarci per dire “io
no, io sono migliore”. Uno specchio che non vogliamo vedere. Un’aggressività
che rimette in campo gli stessi meccanismi dominanti che diciamo voler superare
e dai quali ci riteniamo affrancate.
E’ già accaduto, anche all’interno del movimento
femminista, come ben documentato nel testo di Phyllis Chesler “Donna contro
donna”, Oscar Saggi Mondadori.
E allora forse vale la pena ammettere che non ci
basterà una vita intera per “liberarci”, comunque facciamo ogni giorno i conti
con una cultura che non è basata sulla partnership. E i cambiamenti possono
solo essere lenti, e procedere per passetti. Iniziano però non nell’agire “dell’altro”,
che ha tutta la colpa perché “non fa come dovrebbe”.
Saremo rivoluzionarie quando ammetteremo che inizia
da noi: ciascuna/o responsabile per le proprie scelte e le proprie azioni. Il
cambiamento inizia quando lo agiamo nel mondo. In tutto quello che facciamo.
Non solo perché l’esempio è più importante di mille prediche, mille blog, mille
dichiarazioni di intenti. Ma perché “azione” è anche la cellula di creazione
che porta un’idea nella realtà. E’ il prenderci cura dei fili della Grande
Tessitura. E ogni filo, ne influenza un altro.
E porteremo cambiamento, se a cominciare dai nostri
piccoli gruppi per estenderci anche ai “gruppi vicini”, agiremo questi valori. L’essere
umano ha una spiccata componente sociale: i valori della dominanza sono
instillati per inserire il bambino e la bambina in questo contesto culturale.
Ne consegue che una grossa parte della “guarigione” dipende dal contesto
stesso. Inizia nei nostri cerchi, e continua nel rapporto con i cerchi “altri”.
La gelosia, l’invidia, la competizione, il malumore, sono tutti sentimenti
comuni che tutte e tutti sperimentiamo con vari livelli di intensità. Sono le
reazioni di protezione della nostra individualità, laddove viene percepito un
pericolo. Sono gli scudi lasciati dall’educazione patriarcale. Proprio perché è
un’educazione che svilisce.
Ciascuna e ciascuno di noi nasce con dei doni. E ha
un proprio posto nel mondo. L’educazione patriarcale non favorisce questo, ma
mette i singoli in lotta tra loro per conquistare i posti di “potere” nella
scala gerarchica ai quali possono concorrere. La paura di non trovare il proprio
posto, è una paura comune accesa da questo tipo di cultura.
Il miglior posto è il nostro posto. Quello fatto per noi, per mettere in luce i nostri doni: attraverso i quali possiamo partecipare alla Creazione, e portare miglioramento nelle nostre società. Abbiamo bisogno che i nostri piccoli contesti lascino a ciascuno lo
spazio per autodeterminarsi, e allo stesso tempo abbiamo bisogno di accogliere
queste nostre difficili emozioni e MAI di censurarle. Perché ciò accada,
dobbiamo creare dei luoghi sicuri in cui tutti i membri si impegnano in questo
lavoro.
Dobbiamo favorire l’apertura: una persona mentirà
laddove non si sente accolta. E questa diviene una sconfitta per tutte/i.
Dobbiamo poi osare di nominare l’innominabile, fare uscire i fantasmi: e non
ricreare le dinamiche dell’educazione patriarcale che “svilisce la persona
dinanzi l’errore”, o l’emozione scomoda che sia.
Il patriarcato in me diminuirà la sua influenza se,
oltre a continuare il lavoro su me stessa, troverò tra chi mi circonda chi è
disposta/o a “scendere al mio livello”, sedersi vicino a me e dire “sorella,
anche io provo lo stesso che provi tu. Accettiamolo. Impariamo a non ferirci, e
ad ascoltarci. Troviamo assieme un modo per onorare il nostro posto, e tu farai
lo stesso con me”.
Qui nessuno “è meglio di” o “peggio di”. Non abbiamo bisogno di essere "innalzate" e viste come delle illuminate, e allo stesso modo non ci serve essere svilite e non considerate.
Essere portatori del modello della dominanza riguarda
tutti/e, e riguarderà ancora tutti/e per ancora parecchie generazioni.
Guardiamo alle culture attuali che si fondano sulla partnership, impariamo da
loro, creiamo un metodo, e pratichiamolo.
Per cambiare qualcosa, non possiamo riutilizzare i
vecchi strumenti. Quelli, riproporranno esattamente gli stessi risultati. Dobbiamo
essere creative, e trovarne di nuovi. Il coraggio di osare….. Il cammino nella
Dea è anche questo.
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