Translate

Cerca nel blog

giovedì 6 dicembre 2012

La Ricerca di Dea, tra teorie e pratiche


Le coppie di opposti

Chi mi conosce, sa che ho una specie di benigna ossessione nei confronti delle coppie di opposti, un’ossessione che però risale come un salmone contro corrente rispetto alla comune tendenza del pensiero classico filosofico di usare le medesime dicotomie come unico metodo “dato” di classificazione del mondo.
E’ che non riesco proprio a fare a meno di dimenticare quel senso di profonda unità che scaturisce dalle mie pratiche di comunione con il sacro femminino, anche laddove ne celebro, seguendo la ruota dell’anno, singole caratteristiche diverse. Un’unità che trasuda da ogni simbolo ruoti attorno a Dea, da molti miti su di Essa, da una percezione del tempo e del mondo totalmente altra rispetto a quella percepita nella nostra era (un’altra mia passione, quella delle temporalià, su cui prima o poi voglio scrivere); un’unità che sembra dissolvere in sé tanto ogni tentativo di separare rigidamente questi opposti quanto ogni loro astratta significazione estrema, e che restituisce piuttosto alle polarità il ruolo di coppie che danzano per favorire la continua Generazione dell’universo.

Non sarò mai in grado, fortunatamente, di definire esaustivamente cosa Dea sia. Allo stesso modo, può parere un paradosso tentare di definire cosa non sia: c’è in effetti qualcosa che può considerarsi estraneo al Tutto che, nell’intimo del mio cuore, Essa rappresenta?
Eppur potrei dire che non credo possa essere rappresentata dai nostri concetti di separatezza, di esclusione, di gerarchia assoluta…

E’ nel momento in cui si idealizza un "bene assoluto" a cui associare una divinità, che automaticamente si genera la necessità logica di controbilanciare con una “contro-divinità” associata all’idealizzazione del male. Con lo stesso metodo, a ogni polo di ciascuna coppia è stato più o meno attribuito il beneficio di positività, o la sventura di negatività.
Quindi uno dei due poli ha finito per assumere una sorta di “primato morale” sull’altro polo. Ovvero, in ogni coppia, un polo è considerato migliore dell’altro. Se scrivo difficile, ecco degli esempi. Se Dio è bene, il Satana di turno è male. Se carne è male, spirito è bene (da dove arriva tutto il lavoro di demonizzazione della carne (=corpo e bisogni del corpo)? O le religioni che si basano sull’ascesi e la totale trascendenza dal piano fisico? Queste categorie, non sono solo astrazioni: creano realtà ogni volta che decidiamo di dar loro corda, creano mondi).  Se si crede che le religioni che predicano l’assoluta trascendenza siano migliori, per contro si definirà negativamente la ricerca dell’immanenza, cosa che mi risulta essere già tendenza in una buona fetta del pensiero filosofico religioso. Se il pensiero scientifico è bene assoluto, quello umanistico diventa “un po’ meno bene”. Se logica e razionalità sono super, intuizione e pensiero magico sono, se non proprio male, “robetta di serie B”.
E che succede, se si polarizza uomo/donna? 
Laddove non si riesce a fare a meno di pensare in questo modo, ecco che l’uno diventerà buono, l’altra…. Un po’ meno. Ed è ciò che riscontriamo nel pensiero passato come nelle tendenze presente, cioè almeno da qualche millennio.


La forma di ribellione, cercata in risposta alle ingiustizie che si sono create sul piano pratico dal radicarsi di questa duale organizzazione di pensiero, si è connotata sovente con l’inversione dell’attribuzione di significati di positività/negatività ai poli. Vuol dire che ciò che prima era positivo, diviene negativo e viceversa. Ne abbiamo esempi estremi nelle correnti di Satanismo in risposta al Cristianesimo. Ma risponde a questa logica anche la negativizzazione assoluta del maschio e l’idealizzazione della femmina, il rifiuto totale di ogni forma di razionalità a favore dello spontaneismo. O dell’estremizzazione delle “cose del corpo” contro a uno “spirito” percepito sempre più come inutile, proprio come sta accadendo nella nuova significazione del nostro mondo.

Il grosso limite di questo modo di ribellarsi, è che usa le medesime regole del medesimo gioco: dividere; chiudere a qualsiasi possibilità di contatto tra le polarità, che in tal modo non possono più creare qualcosa di altro che vada oltre la somma delle due singole parti; creare ulteriori ingiustizie. Una specie di biblica “Legge del Taglione”, un “se io ho subìto, ora subisci tu”, percepita come più appropriata forma di giustizia da alcune correnti neopagane, ma sulla quale invito a qualche riflessione. In quale cultura e in quale paradigma essa si alimenta? E’ davvero questa una giustizia “neutra”, o si ha forse paura di non esercitare un rifiuto sufficientemente netto della morale religiosa corrente (perché percepita da molti come imposta e soffocante)? Cosa desideriamo davvero, un mondo più giusto e rispettoso, o uno diversamente “stronzo” (passatemi la volgarità)? Quale ideale ci alimenta: ricercare una diversa spiritualità, o nutrire il nostro orgoglio e la nostra rabbia? E ancora: possiamo davvero permetterci di criticare questo ordine del mondo o le religioni patriarcali monoteistiche esistenti, se adottiamo e pratichiamo i loro medesimi principi nel trattare “l’avversario”? Ha senso gridare all’ingiustizia e denunciare l’oppressione, laddove perpetuiamo altre ingiustizie e pratichiamo altre forme di oppressione? E’ il concetto di “opprimere” che riteniamo sbagliato in sé, o solo il fatto che le vittime di questa oppressione siamo noi?

 L'aver fondato su queste semplici opposizioni l’intera nostra classificazione del mondo, della realtà fisica, dell’universo, della religione, ecc, e persino di certe nostre forme di ribellione, ci rende davvero difficile cercare di afferrare quale possa essere e persino che possa esser esistita una forma di pensiero e percezione altra, probabile tra le nostre antenate, che può esser descritta con caratteri di circolarità, inclusività, onnicomprensività.

Teorie e pratiche

Perché questa lunga introduzione sulle coppie dicotomiche?
-Perché è nel mio stile dilungarmi e fare il “giro largo”… ;) …e anche così, non riesco mai a essere abbastanza chiara in cosa voglio esprimere! Non so essere concisa in discorsi complessi che danno adito a facili fraintendimenti. E nemmeno voglio dare per scontato che chi legge conosca bene tutti i riferimenti che uso nell’argomentare.
-Perché la coppia teoria/pratica è spesso nella storica lista delle opposizioni.
-E perché sulla risoluzione di questa ennesima opposizione, cerco di costruire il mio sentiero di ricerca di Dea.
Il titolo, coniugato al plurale “teorie e pratiche”, vuol attribuire riconoscimento ai molti cammini possibili, arricchiti da molte teorie e molte forme di pratica, tentando di scardinare l’idea –parte integrante dell’educazione religiosa che molti di noi hanno ricevuto- che ci debba essere in assoluto un’ortodossia, un cammino migliore, in questo caso una sorta di ortodossia di Dea.
Un’enorme montagna può essere approcciata e scalata attraverso molti sentieri, anche eterogenei, e vari versanti. Imparando a sentire “cosa è giusto per noi, in questo momento”, si può imparare a scegliere il miglior sentiero che è migliore proprio per il livello di “allenamento” delle nostre personali gambe. Ma che non è per forza il sentiero su cui far camminare tutti.

Detto questo, non possiamo non partire dallo status quo, ovvero dal notare che nel nostro angolo di società occidentale “ciò che conta” è o la pratica di tipo professionale che esercita ciò che altri insegnano a fare, o il pensiero scientifico super razionale. Che ne è della creatività e dell’arte (basterebbe pensare al destino del sito archeologico di Pompei), e del pensiero umanistico-filosofico? Quale tipo di progresso è celebrato? Quali i corsi di laurea considerati di serie A, e quali di serie B? E’ forse quella dei “giovani portatori di novità”, la categoria sociale supportata e incoraggiata?

A me personalmente sembra che ci sia bisogno di inserire un pò di dimensione creativa sia nelle teorie che nelle pratiche, per quanto riguarda le nostre forme di spiritualità. E questo potrebbe aprire un’ulteriore riflessione, che però rimando.
Soprattutto, percepisco come ancora ci sia bisogno di soffermarsi sulla diffusa percezione di “teoria” come contrapposizione di “pratica”. E qui mi soffermo. Perché in realtà, il consentire a entrambe queste polarità di contattarsi e danzare assieme, credo possa darci in qualche modo… un paio di scarponi con il turbo!

Parto dalla mia esperienza. Fino a qualche anno fa, ero – forse per educazione, tendenze personali, strategie di sopravvivenza che mi sono state utili in passato- profondamente persuasa del primato della teoria sulla pratica. No, c’è di più. Pensavo così, anche per resistenza a certe forme di “pratica” che non mi sembravano esaustivamente accompagnate da un’intenzione conscia, ma che, come dicevo sopra, esercitava “ciò che altri dicono di fare”. Mi capitavano per le mani libri che suggerivano incantesimi preconfezionati pronti all’uso come i "4 salti in padella", oppure liste interminabili di simboli “da usare a piacimento” senza tuttavia soffermarsi su quali e quanti livelli di significati essi potessero contenere, una pratica insomma perlopiù “estetica” ed “esteriore”, che forse attirava (e vendeva di più!) perché aveva il pregio di rendere riconoscibile in breve tempo un qualche grado di identità a chi la metteva in opera.

Non è ciò incredibilmente coerente con il primato dell’immagine che pervade il sistema sociale in cui viviamo? E che ha nel suo estremo quel mondo popolato di modelle, veline, politici, ecc., che pare fondarsi sull’ “appaio, quindi sono”: volti noti snaturati da questo o quell'intervento plastico il quale promette ideali di bellezza eterna nel tempo breve di un'operazione chirurgica?
E’ come se il mondo non fosse mai maturato dalla sua preadolescenza.
Insomma, lottavo con tutte le mie polemiche forze contro un modo di praticare che non approfondiva mai parole come “intento” e “consapevolezza”, laddove queste venissero nominate.


Un modo di praticare che si riduceva a una lista di cose da fare, rituali da compiere, già scritti e pronti al consumo, che ha avuto la grave responsabilità di contribuire allo svuotamento della profondità di un linguaggio simbolico nella spiritualità, per ridurla a poco più che “un libro di istruzioni”… e che ha probabilmente anche nutrito con orgoglio il pensiero di tutti quegli accademici teorici e filosofi delle religioni che non sono riusciti a vedere nelle contemporanee correnti spirituali neopagane o riferite a Dea, altro che un polpettone che definiscono “new age”.
Non è colpa del neopaganesimo, tanto meno dei movimenti della Dea in sè. E’ qualcosa che credo già iniziato da molto tempo. Forse, potrebbe essere dal momento in cui la religione dominante ha deciso che il suo gregge “non poteva capire”, e ha affidato a dogmi ai quali obbedire ogni esercizio di “fede”. Anzi, il termine “fede” stesso ha perso complessità di significato per venire poi percepito solamente come “obbedisci anche laddove ti sembra assurdo, o verrai punito”. E noi tutti, educati in questa cultura, saremmo in qualche grado portatori di questa visione riduttiva del mondo spirituale.

O forse potrebbe essere che, dal punto di vista religioso, per chi di noi ci è passato, già dal catechismo siamo educati che religione significa “come fare che cosa”: ho sempre criticato la smania di iniziare l’insegnamento di dogmi ai bambini in un’età in cui lo sviluppo del pensiero, secondo Piaget, è in una fase in cui li rende recettivi proprio sulla comprensione delle regole del fare.
Non scendo in tecnicismi psico-pedagogici, ma ciò significa che un bambino concepisce la figura di un Dio creatore come un Dio che sa fabbricare cose, e la religione come qualcosa in cui dobbiamo fare una serie di cose “buone” e non farne delle altre che sono “cattive”. Ciò, in aggiunta, avviene in un periodo in cui si dice che la morale è “eteronoma”: la morale, il bambino non se l’è ancora fatta da sé. Gli viene spontaneo cercare i propri riferimenti e i propri paletti dagli adulti, ai quali richiedono naturalmente che si insegni loro cosa è giusto e cosa sbagliato.

Praticamente ipotizzo, attraverso questa lettura psico-pedagogica, che in qualche modo così si rischia di fermare la nostra spiritualità a questo stadio di pensiero infantile….anche se nel frattempo diventiamo adulti. Una sorta di imprinting religioso da cui è complicatissimo uscire.

A questo punto, salta fuori la teoria (o le teorie).
Sempre parlando di me, la teoria è stata un rifugio, un antidoto a un tipo di pratica che ha sicuramente coinvolto anche la ritualità nella mia post-adolescenza. E allora mi sono lanciata in lunghe giornate di lettura di tutto ciò che ritenevo leggibile, in ore e ore a compiere ricerche in internet, a fare parte di più gruppi di studio/lettura contemporaneamente, Mailing Lists, dizionari filosofici, e chi più ne ha, più ne metta.
Ci ho messo davvero un bel po’, ad accorgermi che stavo letteralmente smettendo di vivere: chiusa in un universo vuoi virtuale, vuoi comunque filtrato dal pensiero di altri, per quanto grandi, confinata in biblioteche o davanti a un monitor, presa ormai da una smania maniacale di ingrandire la mia conoscenza.
Quando me ne sono accorta, grazie anche al mio percorso di sacerdozio a Glastonbury, ho rimesso in discussione tutto. Non senza una grossa depressione.

Non critico il lavoro di studio che ho compiuto. Critico il suo renderlo esclusivo e il crederlo necessario ma anche sufficiente. Il gap tra ciò che ero in grado di teorizzare e il mio modo di vivere rischiava di diventare troppo grande. Stavo perdendo i miei punti di approdo. Non mi chiedevo più "e con la vita, a che punto sei?". E altri “colleghi” di studio mi facevano da specchio, mostrandomi come sempre più spesso questo gap si traduceva in una apparente saggezza a parole (o quantomeno a una discreta conoscenza di un sacco di cose), ma una totale incoerenza nello stile di vita e nei comportamenti.
La ritualità, in certi momenti del mio percorso, è stata persino demonizzata.
Criticavo aspramente un bisogno di praticare che ritenevo compulsivo e privo di un adeguato sostegno da parte di un pensiero che desse senso dell’azione. Ma non mi accorgevo che anche il bisogno di libri e teoria, stava diventando compulsivo in me, e non aveva alcun canale pratico di espressione e realizzazione.
Una delle prove di ciò, è che nemmeno mi accorgevo dell’impianto gerarchico di alcuni dei piccoli gruppi che frequentavo, basato su dinamiche di potere tra i membri, in un momento in cui aderivo già alle teorie che vedevano nella gerarchizzazione di tutto una caratteristica del pensiero androcentrico-patriarcale!
La via d’uscita? Riprendermi anche quella dimensione di pratica, lenta, approfondita dalla mia consapevolezza dei significati di cui si arricchivano gesti e strumenti. Non era necessario assumere i significati che altri prima di me davano ma io non comprendevo bene, anzi. Li cominciavo a capire da me. La potenza, e vorrei soffermarmi su questa parola, POTENZA della pratica, unita al pensiero, mi si è allora rivelata.
La vita quotidiana non mi è più sembrata separata da quella “intellettuale” (virgolette d’obbligo, in quanto sono ben lontana dall’essere un'intellettuale così come lo si intende oggi), il corpo non mi è più sembrato in antitesi col pensiero, la ricerca sui libri non era più altra rispetto alla saggezza applicata nel mio stile di vita. E il motore è stato acceso e alimentato dal desiderio di una ricerca di un’UNITA’ quanto più profonda possibile tra ciò che agivo e ciò che pensavo.

E poiché le dicotomie (=coppie di inconciliabili opposti) sono creazioni del pensiero umano, mi è divenuto evidente che teoria nutre pratica, quanto però accade il contrario, pratica nutre teoria. L'una necessita dell'altra.
E certi passi fondamentali nel mio sacerdozio, o nel mio personale culto di Dea, sono diventati consapevolezza nel profondo delle mie viscere solamente nel momento in cui ho iniziato a recuperare il mio corpo, il mondo fisico, e quello rituale, ri-dotandolo di sacralità.
Allora le viscere e la mia mente si sono unite in una danza, permettendomi di compiere ulteriori salti, di spolverare ambiti prima sconosciuti, di risvegliare parti di me dimenticate, che mi hanno portato ad accorgermi dell’esistenza di altre cellule di conoscenza, che potevano nutrire la mia mente e riportarla in funzione.
Così come polo positivo e polo negativo solamente quando sono assieme creano elettricità.

Lettura e teoria, quindi, continuano (anche in questo momento sto "teorizzando", seppure attraverso un blog!). Ma non sono più in una posizione di assoluto primato.
Il mio modo di praticare, vuol scalfire anche un’interpretazione all’estremo di un altro paio di opposizioni classiche, quelle di sacro VS profano e di immanenza VS trascendenza. Ovvero, una pratica che si dispiega si in una dimensione rituale legata a una forma di culto, di Dea nel mio caso: riti di passaggio, celebrazioni della stagionalità della ruota dell’anno, della natura, della Terra e della Luna, di particolari momenti nella mia vita, una celebrazione di aspetti al di fuori di me.. ma anche “dentro” di me. E anzi imparo come ciò che accade fuori si riflette in ciò che accade dentro. Ciò che accade in piccolo, in ciò che accade in grande.
Considero altrettanto profondamente sacro anche il modo in cui dipano la matassa della mia vita nella quotidianità: prendermi la responsabilità del mio agire, fare del mio meglio nel modo in cui mi accosto al mio lavoro, in cui tratto le persone con cui vengo a contatto (nel limite della mia umanità, che non mi consente di essere perfetta), negoziare col marito, l’educazione che voglio dare alla mia bimba, il cibo di cui mi nutro, il mio modo di essere "consumatrice"…. essere consapevole (che è molto più di “sapere”...forse un significato profondo della parola "consapevolezza" contiene in sé l'unione "teoria-pratica"!) che ciò che faccio non è staccato da una dimensione di sacralità, ma ne fa parte. E’anch'esso il modo in cui ciascuno di noi partecipa alla creazione, che è continua. E' il modo in cui ci prendiamo cura delle sottile corde del Wyrd.

Non che tutti si debbano sentire in obbligo di saper fare tutto. Ci sono sempre differenti inclinazioni, desideri volontà. E io stessa, per la mia timidezza, sono ad esempio molto meno portata a fare da facilitatrice in certi momenti pubblici rispetto ad altre mie sorelle. Mi piace più creare, stare “dietro le quinte”, inventare, piuttosto che espormi in prima persona.
Per concludere, riprendo il post sul significato di “sacerdotessa”: non credete a chi vi dice “voi non potete capire”, “ voi non potete farlo”. Chiunque, laddove lo voglia, può farlo: chiunque può capire e fare teoria, capire e creare pratiche: con i propri tempi, quando metodo, lavoro, confronto, umiltà, pratica e desiderio lavorano in sinergia. C'è un gran bisogno del contributo di tutti....

sabato 1 dicembre 2012

Riflessioni di un amico al post "Sacerdotessa: ma cosa vuol dire?"

Un amico ha letto il post che raccoglie alcune mie riflessioni sull'esser sacerdotessa in una nuova spiritualità che si sta affacciando nel nostro mondo, e mi ha scritto un lungo e profondo commento che, per motivi di limite di spazio, non è stato possibile inserire sotto l'articolo citato.

In questo scritto molte riflessioni emergono, molte porte su argomenti interessanti vengono aperte. Ed essendo uno degli scopi di questo blog proprio fare in modo che le idee su questa spiritualità emergente vengano stimolate, discusse, prodotte, mi sembrava un delitto lasciare che questo sentito prodotto umano rimanesse nel silenzio.

Internet è spesso anche il luogo della superficialità, della leggerezza, della banalità.
Diamo spazio invece a ciò che banale non è.
Questa è la risposta di Germano Caputo Licastro al mio articolo:

"Cara Laura,
rispondo alla tua riflessione, forse in maniera confusa, ma sincera,
premettendo che quanto segue è frutto di mie opinioni ed esperienze,
che in alcuni punti assumo come verità finchè non mi verrà provato (o
sperimenterò) diversamente Aggiungo che non ho potuto fare a meno di
dilungarmi e parlarti anche di me, delle mie idee e del mio disagio.

Ritengo sia lecito aspirare ad un riconoscimento sociale, ad un
titolo. Tanto per iniziare perché è la società stessa e le persone che
te lo chiedono, perché tu potresti sviluppare equazioni innovative
come il miglior matematico della storia dell’umanità, ma sentirti dire
che non meritano neanche di essere verificate perché sei una
studentessa di scuola media o un’operaia in fabbrica senza alcuna
qualifica.
Poi perché il porsi degli obiettivi, possibilmente in linea con le
proprie aspirazioni, e raggiungerli conseguendo un titolo riconosciuto
da una qualche istituzione fa parte del percorso di crescita interiore
e personale che tutti dovrebbero seguire.
Certo, spesso non a tutti viene data la possibilità di farlo, pur
essendo molto motivati o bravi, purtroppo fattori economici o altri
sbarrano la strada a molti, e tra questi potresti trovare alcuni tuoi
detrattori. In Italia ne avrai più che altrove di critiche, per ovvi,
suppongo tu comprenda, motivi di arretratezza culturale generale ed in
particolare maleducazione religiosa.

Nella meccanica Dominatrice, a cui accennerò più avanti, purtroppo
siamo tutti impelagati, chi più e chi meno, me compreso. Una delle
risposte che potrai dare ai critici è di guardare cosa e come lo fai
prima di “pregiudicarti” solo per via del tuo titolo. Infatti il
(pre)giudizio è talmente radicato in noi, come il concetto di colpa,
che ormai giudichiamo (o colpevolizziamo) noi stessi e gli altri,
senza neanche rendercene conto, senza neanche possibilità di
sospensione in attesa di verifica.
Così come, sempre, quando accade qualcosa di negativo o imprevisto, si
parte solo alla ricerca del colpevole e non della soluzione, come se
trovare il colpevole risolvesse tutto. In parte è vero, perchè placa
un’ansia, risponde al bisogno emotivo di non sentirsi in colpa, poiché
il pensiero cattolico che pervade la nostra società ci tormenta fin da
piccoli, è come una spada di Damocle sulla testa di ognuno di noi e
che può colpirci per qualunque cosa accada nel mondo.

Altrettanto vero è che vediamo il mondo in maniera lineare:
nell’economia, benessere uguale ricchezza mediante crescita infinita;
nella civiltà, siamo all’apice dell’evoluzione, mai raggiunta prima
finora, senza dubbi; nella biologia, linea discendente, nasciamo
giovani e forti e diventiamo vecchi e deboli; nella medicina, il
progresso medico è in continuo sviluppo, mentre il numero delle
malattie è in continuo aumento ed erano più sani gli antichi
igienisti; nell’educazione, siamo bambini ignoranti ed incapaci cui si
deve insegnare a diventare adulti, invece di conoscere se stessi e
sviluppare le proprie potenzialità che sono maggiori da bambini;
nell'idea di governo, linearità piramidale o di valore, dal
cittadino/suddito ai governanti eletti; eccetera, eccetera, fino ad
arrivare alla spiritualità.
Nasciamo impuri e peccatori (cosa c'è di più puro e innocente di un
neonato?) e possiamo riscattarci esclusivamente seguendo i dettami di
una religione e di un capo religioso arrivando alla fine della nostra
vita a conoscere il divino, dopo la morte (?!). Immagino che da pagana
sarai in accordo con me: il divino è da noi sperimentabile da soli
ogni momento, e le spirali, la ruota, il cerchio sono più appropriati
come simboli di quanto ci circonda e avvolge/contiene.

Attualmente io considero tutte le persone uguali alla nascita, come
potenzialità, pur conservando una predisposizione genetica, quindi
familiare, intendendo quella ereditata dal Dna dei genitori.
Di questo sono certo, mentre non ho ancora capito se esiste una
cattiveria o bontà insita, che non dipenda invece dal modo in cui si
viene educati, ma amati ancora di più, benchè pensi che se avessimo
sufficiente amore insieme alla soddisfazione dei nostri autentici
bisogni e ad un contesto socio/familiare/culturale ideale, saremmo
tutti persone quasi illuminate in una società perfetta.
“Il pianeta verde”, bellissimo film di Coline Serreau, rende bene
questa società (sebbene io la preferisca un po’ più ricca di arti e
artigianato).
Perciò pur contando decine di personaggi e persone (viventi e del
passato, conosciute e non, vicine e lontane, maschi e femmine, bambini
e adulti) che ammiro, stimo, amo, adoro, come manifestazioni del
divino o come leader ispiratori o geni, non ne considero nessuna
superiore ad altre se non nel loro campo di eccellenza o per quello
che possono dare, come per i bambini. Esistono, è innegabile, persone
davvero straordinarie capaci di fare cose impossibili ai più, capaci
di dedicare ogni secondo della loro vita ai loro obiettivi e alla loro
crescita nel proprio ambito,e quindi di costruire grandi cose, nel
bene e nel male, può essere un Berlusconi, come uno Steve Jobs o un
Gandhi. Esistono queste enormi differenze tra individui che lasciano
subito e facilmente immaginare un mondo gerarchico per natura, una
dicotomia: esseri superiori ed esseri inferiori, applicando la stessa
scala a tutto l'esistente, in ordine di valore: dai minerali, alle
piante, agli animali, alle donne, agli uomini, al divino.
Che ci siano differenze anche abissali in gran parte è vero, ma non
accade per genetica o razza (siamo un'unica specie umana), ma per il
modo in cui si cresce, e quindi ad un certo punto, come una piantina
che non ha avuto cure adeguate, o che venga forzata a crescere
artificialmente, alcune persone sono davvero nella condizione di
animalità, o inferiorità che potrei considerare passiva o attiva: chi
fa del male solo a se stesso e chi ne fa ad altri, dalla moglie, al
prossimo, a milioni di persone operando ad esempio in una
multinazionale o in politica.
Queste persone difficilmente possono diventare benigne per i propri
simili, se non con una notevole quantità di risorse che solo una società
molto più evoluta della nostra può impegnare. Anche il peggior
criminale può essere recuperato ed arrivare a conoscere l’amore e a
comprendere il male che ha subito e fatto a sua volta, ricominciando
nuova vita, ma è difficilmente fattibile attualmente.
La mia certezza dell’uguaglianza di tutti deriva sia per maturità
emotiva e razionalità, ma anche per conoscenza diretta. Fin da piccolo
sono stato attento osservatore ed empatico per natura, qualità che mi
hanno portato tanti effetti positivi quanto negativi. Grazie a ciò, e
ai lavori che ho svolto e svolgo, ho potuto constatare quando tutti
siamo umani. Ho conosciuto persone ricchissime e poverissime, in
salute e malatia, di diverse nazionalità e condizione sociale, inermi
e pericolose, forti e vulnerabili, avendo modo di rompere ogni
pregiudizio. Un genio musicale può essere una frana in amore o in
famiglia. Grandi imprenditori essere dei bambini timorosi del buio, un
prete un pedofilo e così via, siamo tutti esseri umani.

Tutto ciò cosa c’entra con le tue riflessioni?
Innanzitutto per avvertirti che troverai sempre chi criticherà chi
sei, cosa fai e la tua scelta, anche infondatamente, anche
semplicemente per cattiveria, invidia, superficialità. Esistono questi
sentimenti negativi come esistono persone pericolose e crudeli. E poi
perché quanto sopra avvalora la tua visione, che condivido, di
eguaglianza nelle potenzialità di chiunque di raggiungere e sentire il
divino, perché tutti lo siamo alla nascita e ce ne allontaniamo
crescendo.
A mio avviso, per fare un esempio, Osho era uno di questi personaggi
capaci di illuminare e guidare senza desiderare il potere. Se il
potere intorno a lui si è creato, come si è creato con Gesù, è stato
per persone che gli erano vicine o lo hanno usato come strumento.
Oppure si diventa vertice di una piramide, nel caso di chi invece mira
coscientemente al potere, perché molta gente ricerca qualcuno a cui
dare potere anche se non ne ha, cerca persone cui delegare, cui
sottomettersi, cui dare responsabilità che non si vogliono prendere.
E' tipicamente il caso italiano, dove nel passato remoto c'erano
imperatori e papi, ieri c'era un Mussolini, oggi un Berlusconi, domani
un Renzi: se la visione prevalente in un popolo è dominatrice, milioni
di persone aspireranno (e collaboreranno) ad avere un leader politico,
un esponente religioso, una medicina, una scuola, un'economia,
piramidali: caratterizzate da gerarchie, autoritarismo, maschilismo.

Penso che quando qualcuno ti si avvicina sia bene che tu valuti anche
questo. Perché è venuto da me? Cerca una guida spirituale o un guru?
Potresti diventare un parafulmine su cui scaricare la colpa!
E’ verissimo che il divino è accessibile a tutti. Come è vero che
alcune persone, come te, possono essere di aiuto nello scoprirlo. Ma è
altrettanto vero che entrambi, sia la ricerca autonoma, che il tuo
ruolo, richiedono impegno, responsabilità, capacità di discernimento,
di sopportare delusioni e il peso di scelte sbagliate ed errori. Di te
sono certo che hai coraggio per affrontarlo, ma per la maggioranza
delle gente è molto più facile scegliere una religione (o l'ateismo,
la scienza, il denaro, eccetera), il relativo testo “sacro” ed
affidarsi ad un guru che ha la risposta pronta per tutto, che sia il
papa, il Dalai Lama o l’oroscopo o il segno zodiacale! Esiste
un’infinità di palliativi e “succhiotti” cui restare attaccati per
tutta la vita. Tutto ciò fa comodo al sistema Dominatore, come fa
comodo avere persone tendenti alla dipendenza: ora dal partner, ora
dal lavoro, ora dallo psicoterapeuta, ora dal medico, e così via.
Finchè un individuo rimane immaturo e lacerato da conflitti, interni
ed esterni, ha poche energie da dedicare a sviluppare il suo potere e
ribellarsi dalla sua condizione di schiavitù dal Sistema.

A parte ciò, cioè la relazione personale tra te e la gente, il compito
di una sacerdotessa consiste anche, e questo nella tua riflessione non
l’ho trovato forse perchè lo davi per scontato, nel tramandare,
preservare, e anche arricchire, una saggezza antica, dovrei dire una
religione. Questo termine nel tuo caso però non è corretto perché il
paganesimo non può mai diventare religione, prima di tutto per la sua
diversità “genetica”, non si può paragonare un prodotto della visione
Mutuale con uno della visione Dominatrice. Poi per la valenza negativa
che ha assunto questo termine nella pratica, ed infine per la sua
etimologia così controversa. Quel che tu tramandi, rappresenti,
preservi e divulghi, anche mediante rituali, simboli, vestizione,
testi e la tua interpretazione, ha un valore immenso perchè frutto di
migliaia di anni di impegno di popoli e persone che hanno ricercato
giustizia, verità, equilibrio, ordine nel caos, l’essenza della realtà
(divina) dietro l’apparenza materiale della nostra esistenza, in tempi
in cui era molto più facile guardare le cose per quello che sono, tra
parentesi. Ogni volta che leggo da saggi del passato di come sia
facile trovare il divino nella natura, sorrido amaramente, sapendo
quando sia quasi impossibile per noi occidentali e civilizzati trovare
un briciolo di natura…

Quindi, riassumendo, in te, nel tuo ruolo di sacerdotessa, vedo tre
esercizi.
La tua realizzazione e sviluppo personale, visto che era qualcosa che
sentivi fin da piccola; l’interrelazione con gli altri; il paganesimo.

Riguardo critiche e altro inoltre, considera anche che hanno valore,
meritano valutazione e risposta a seconda delle persona e delle
motivazioni che stanno dietro chi le fa. Dopotutto devi render conto
alla tua coscienza, e guardare ai risultati. Punto.
Infine bisogna tener presente che siamo nel pieno del conflitto tra
due modelli e visioni opposte: Dominatore e Mutuale. Il primo ha
cominciato ad espandersi, con i risultati che vediamo, da quasi
cinquemila anni, suppongo conoscerai Riane Eisler, Marija Gimbutas e
soprattutto “Le nebbie di Avalon”*, che secondo me rende perfettamente
l’idea delle origini e della virulenza dello scontro culturale in
atto.

Spero tanto di aver scritto qualcosa di utile e che abbia un senso.
Veramente non mi aspettavo di avere così tanto da dire, ne sono
sorpreso, ma evidentemente le tue parole hanno toccato qualcosa in me
che sento fortemente. In effetti mi ha colpito il tuo scritto, sia
perché hai una chiara e ben delineata visione e parli di cose rare da
trattare, e poi perché anch’io sento qualcosa di analogo fin da
piccolo, e ancora non ho messo a fuoco cosa, anche se è evidente che è
molto radicata e include una spiritualità che mi è stata negata fin da
allora, una sensazione di appartenenza non riconosciuta a qualcosa di
più grande, la Terra, la Dea, la Natura, la Vita, che non ho ancora
avuto modo di focalizzare e di praticare e condividere pienamente con
gli altri.

Sono sempre stato empatico e desideroso di essere di aiuto agli altri,
l’ho sempre fatto in qualche modo, spesso trascurando me stesso e
commettendo tantissimi errori e scelte sbagliate di cui ne pago le
conseguenze. Il mio fantozziano “sogno mostruosamente proibito” è di
cambiare e creare armonia nel mondo. E i valori che ho individuato
come primari e da cui sviluppare principi e addirittura un movimento,
in sintonia con il paganesimo, la Natura e tutte le altre cose che
sento risuonare in me sono tre: Amore, Vita, Libertà.
Ma non sarà che mi concentro sugli altri per evitare di fare i conti
con i problemi della mia vita e con me stesso? Oppure in effetti,
questo desiderio non è altro che la manifestazione umana dello spirito
che anima il tutto? Un eco della flebile voce della Natura cui io e
tanti altri siamo sensibili perchè ancora connessi ad essi? Se la
Natura vuole difendersi, e siamo tutti connessi, non può forse agire
tramite noi, facendo sentire la sua voce in noi? Non con le parole,
ovviamente, ma come sentimento, percezione... è quel che sento!!!

A questo proposito, del nostro ruolo storico, condivido quanto dici
del passato. Senza cadere in illusioni d'epoche d’oro. Non saranno
state utopie, ma ritengo ci siano stati periodi migliori rispetto alla
storia insegnata che lo nega decisamente. Penso il nostro passato sia
indispensabile conoscerlo, il più possibile veritiero, senza storie
scritte dai vincenti, con le lenti del Modello Dominatore, o libri
sacri revisionati da uomini repressi; il tutto relativamente: nessuno
ha prove certe.
Al pari di un percorso di psicoterapia, solo conoscendo (e
rielaborando) le nostre origini e le vicende che ci hanno forgiato
possiamo diventare consapevoli di chi siamo, fare pace con noi stessi
e svilupparci armoniosamente, aiutando gli altri, persino trovare le
energie per affrontare questo momento di crisi spirituale e culturale,
prima che economica e politica.

Solo così possiamo evolverci, dobbiamo considerare il passato
guardando il presente per creare il futuro che vorremmo e che
meritiamo, realizzare il compito che ci è stato assegnato dalla
Creazione. Abbiamo un ruolo nell’Universo, che non è quello di
distruggere il pianeta, ma casomai proseguire il lavoro
dell’Evoluzione, cioè portare la Vita altrove nell’Universo, cosa che
sarebbe già fattibile, se non fossimo bloccati da qualche migliaio di
anni dal Modello Dominatore a lottare contro noi stessi e distruggere
la Vita. Altresì sono convinto che nella storia del pianeta non è la
prima volta che raggiungiamo elevati livelli di tecnologia e civiltà,
è accaduto e accadrà ancora infinite volte.
Grazie Laura. Non è la prima volta che rispondendo a qualcuno ho
l'occasione di parlare di quanto scaturisce per collegamenti più o
meno visibili. Io vedo tutto collegato!
Germano Caputo Licastro

*Sai che io leggendolo stavo male??? Penso di avere avuto altre vite e
di aver subito violenze, ma anche di essere stato un persecutore. In
fondo noi siamo entrambi, e dobbiamo accettarli per vivere in armonia
e non in conflitto...
" I DUE LUPI "
Un vecchio indiano Cherokee è seduto di fronte al tramonto con suo
nipote, quando d'improvviso il bambino rompe l'incanto di questa
contemplazione e rivolge al nonno una domanda molto seria per la sua
età.
"Nonno perchè gli uomini combattono?"
Il vecchio con gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che stava
perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma:
"Per ogni uomo c'è sempre una battaglia che aspetta di essere
combattuta, da vincere o da perdere. Perchè lo scontro più feroce è
quello che avviene fra i due lupi."
"Quali lupi nonno?"
"Quelli che ogni uomo porta dentro di sè".
Il bambino non riusciva a capire, ma attese che il nonno rompesse
l'attimo di silenzio che aveva lasciato cadere fra loro, forse per
accendere la sua curiosità.
Infine il vecchio, che aveva dentro sè la saggezza del tempo, riprese
con tono calmo.
"Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo, vive di odio,
gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, bugie, egoismo."
Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di
capire quello che aveva appena detto.
"E l'altro?"
“L'altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità,
compassione, umiltà e fede"
Il bambino rimase a pensare un istante quello che il nonno gli aveva
appena raccontato.
Poi diede voce alla sua curiosità e al suo pensiero.
"E quale lupo vince?"
Il vecchio cherokee si girò a guardarlo e rispose con i suoi occhi puliti.
"Quello che nutri di più"."

Grazie a te, Germano.
 

domenica 11 novembre 2012

SACERDOTESSA? Ma cosa vuol dire?

Una lunga riflessione questa, che ho scritto qualche tempo fa, ma che ritengo ancora attuale.
Per chi crede sia necessario interrogarci sul significato di ciò che facciamo e rivendichiamo. Andare un pò più a fondo.
Un tema complesso, di cui porto la mia sentita e appassionata opinione.




Quando, nel 2007, conclusi il primo anno di studi presso il Glastonbury Goddess Temple, e decisi di prendermi una pausa per operare un doveroso cambio di vita, iniziai anche a meditare sulla seconda spirale offerta dal training, che si addentra nel labirinto del sacerdozio. La mia pancia me l’ha sempre detto: “tu vuoi fare la sacerdotessa”. Provai anche a discutere di questa curiosa cosa a cavallo tra medie e superiori, con il parroco della mia parrocchia di allora, protestando sul fatto che alle donne, nella religione Cattolica, non sia permesso di esser sacerdotesse. La sua risposta mi lasciò del tutto insoddisfatta: “Gesù era un uomo, e anche l’occhio vuole la sua parte e comunque, puoi sempre farti suora”. Fu la goccia che fece traboccare in me il vaso del rifiuto del Cattolicesimo come riferimento nella mia spiritualità.


Da allora al 2007 di acqua ne è passata. Una mia concezione di spiritualità si è fatta sempre più prepotentemente strada, confermandosi attraverso avventure e coincidenze, viaggi e storie di vita, che hanno reso la mia relativamente giovane esistenza piuttosto… poco noiosa e monotona! Ho scelto di camminare lungo uno dei possibili Sentieri di riscoperta del Sacro Femminino, approdando proprio a Glastonbury, per una sincera condivisione del suo approccio non gerarchico (nessun capo o sommo sacerdote), non sessista (anche l’esclusione incondizionata e a priori degli uomini in qualsiasi momento di studio o celebrazione, per me, è sessismo), non dogmatico, non svalutativo del singolo che prima –sinceramente- non mi era ancora capitato di trovare.


Ed è tra queste ridenti campagne inglesi, talvolta avvolte dalla nebbia, che mi si è offerta l’occasione che la mia pancia attendeva da una vita. Dedicarmi come Sacerdotessa. Di Dea prima, di Avalon, poi.


Ma cosa è, una sacerdotessa?
-Interrogandomi in prima persona su questa domanda, al fine di determinare se stessi intraprendendo davvero la giusta strada, la prima cosa che mi saltò in mente riguardò quella “vocazione”, quella “chiamata” che chi ha sentito non sa ignorare. Ce l’hai da dentro o non ce l’hai. Per qualcuno viene prima, per altri poi, per altri ancora mai. Va oltre ad ogni spiegazione razionale, è un sentire dal profondo che attraverso “questa strada” la tua vita si compie e realizza, camminando nella giusta direzione (NB: il “giusto” è sempre un giusto rapportato all’individuo e non un “giusto” in senso morale). E’ amore puro e profondo. E’ un sentire che ciò impregnerebbe ogni aspetto della tua vita, ma che non c’è nulla di terribile in questo. In qualche modo, è parte della tua natura.
-Razionalmente poi, cercai altre risposte. Pensai “un sacerdote o una sacerdotessa è come un mediatore”. Si, una specie di medium tra sacro e coloro che il sacro non lo cercano in prima persona.


Ma subito qualcosa mi turbò in queste risposte. E non fu la parte sulla “vocazione”. Ma quella sul “medium”. L’educazione nel Cattolicesimo stava pesantemente e inconsapevolmente influenzando il mio giudizio! Qualcuno che “media”, che ”fa da tramite”, non rischia forse di diventare l’ennesima “guida”, che deresponsabilizza, che si sostituisce, che indirettamente –proprio per il suo proporsi come mediatore- fa passare il messaggio “non lo puoi fare tu”? Non è qualcuno che, esattamente come accade nel mio contesto religioso di provenienza, si innalza a una sorta di scalino superiore, guidandoti nel “cosa credere e come interpretare” ciò che ti accade?
Questo ruolo di sacerdotessa (userò il femminile anche per sottintendere il maschile “sacerdote”) si riferisce a una precisa esperienza del sacro che non è, appunto, direttamente sperimentata dal singolo. Ma filtrata, come fosse monopolio di pochi. Vorrei soffermarmi un attimo su questo concetto, su cui si sono scatenate anche le ire di Lutero al tempo della Riforma Protestante. Perché per me non è affatto l’unico possibile, né automaticamente il migliore.


Pare che la storia ci narri di numerosi esempi anche relativamente antichi (di un’ antichità più profonda, si sa ancora poco), dove un’ idea di casta sacerdotale è sempre in qualche modo esistita. I diversi ruoli sociali possono anche trovare spiegazioni non polemiche, nel fatto che non tutti gli individui hanno stessa indole, stessa capacità, e compiono stesse scelte, sempre che siano state date delle possibilità di scegliere. O comunque, immagino che fosse ancor più improbabile che “tutti facessero tutto”.


Io però non vorrei mai restare intrappolata nella suggestione per presunti passati idilliaci, epoche d’oro ove tutto sembra perfetto come in un sogno, epoche da emulare e riportare a galla. E’ un qualcosa che spesso ho osservato tra coloro che, come me, seguono o simpatizzano per correnti spirituale legate al Movimento della Dea.


Non lo vorrei, non solo perché non credo in epoche d’oro, ma soprattutto perché il mondo in cui viviamo ora ha precisi problemi, complessi problemi, e peculiari necessità. Che non possono essere quelle di “allora”, qualsiasi epoca si attribuisca a questo “allora”.
In sostanza, essere in 7miliardi a compiere o non compiere determinate scelte, fa la differenza. Eccome. E noi occidentali con i nostri vizi e il nostro stile di vita, per il momento almeno, abbiamo ancora la fetta di peso più grossa, pur senza rendercene davvero ancora conto.


Per cultura abbiamo imparato a rispondere alle nostre frustrazioni fuggendo da noi stessi il più possibile, cercando di essere qualcuno che non siamo, ignorando completamente che in realtà noi siamo già “qualcuno”: chi farebbe di tutto per apparire in TV, chi sacrifica ogni cosa alla carriera e al lavoro inseguendo un posto che offra quel prestigio che è tanto socialmente accettato, chi vuole sfondare in politica….tutto inseguendo il mito del “dover essere…”. Il rischio è che questo fiume di bisogno di potere e prestigio esondi anche nel territorio del sacro, e di fatto, lo ha già fatto praticamente in tutte le religioni istituzionalizzate che io conosca. E quindi il pericolo è che anche la scelta del sacerdozio venga alimentata dal bisogno di “sentirci un po’ più speciali”, seguendo magari le suggestioni di questo o quel bel libro, questo o quel bel film.



In concomitanza con i miei studi a Glastonbury, le critiche, talvolta aspre, sono state tante. Specie in Italia. E mi accorgo però che tutte rischiano di partire da un unico, tacito, presupposto: il dare per scontato che il termine “sacerdotessa” riguardi un mero titolo che darebbe prestigio e, in qualche modo, mi metterebbe “al di sopra” di qualcun altro. Qualcosa che mi renderebbe, appunto, ”speciale”, nel senso di “superiore”.
Logicamente e umanamente, se questo fosse il vero intento di essere una sacerdotessa, è normale che vengano molte resistenze. Quelle resistenze che ti fan dire “chi ti credi di essere?”, “perché te si e io no?”, “sulla base di cosa rivendichi questo?”. Condivisibili. Seppur rivelatrici della paura che, in qualche modo, “qualcuno possa prendere il posto che vorresti tu”. Quindi, ancora competizione.


E, di fatto, in questo modo suonano anche le critiche che ho ricevuto. Critiche che, però, raramente hanno lasciato spazio ad un sincero confronto, o anche solo alla possibilità di esprimere che la mia concezione di sacerdozio potesse andare piuttosto che nella direzione appena descritta……in quella contraria!
Il fatto è che, nel mio percorso, ho sperimentato e sto sperimentando un modo di essere sacerdotessa diametralmente opposto all’avere quel genere di potere sulla gente. Non ho trovato ancora una parola migliore per descriverlo, ma ecco, questa mia concezione è invece molto più simile a un “sacro servire”. Non un servizio come auto-umiliazione e auto-annullamento, ma un servizio come “rendersi utile”. Tanto più utile quanto rivendico e riscopro il divino che vive in me e i doni che mi ha elargito. Doni non superiori. Diversi. E un divino che non abita esclusivamente in me, ma anche in colei/colui che ho di fronte.




Lo ho conosciuto, il bisogno del “titolo” come ricerca di un’identità che desse la sensazione di non essere un'ennesima nullità nella miriade di nullità di cui pare esser composto parte del genere umano, secondo la svilente visione della nostra società. L’ho vissuto AMPIAMENTE, da adolescente prima, da ragazza poi, in un ambito diverso totalmente: quello dell’”arte di strada”. Ed è perché lo conosco, che ne desidero parlare anziché insabbiarlo come fosse una vergogna.
L’inghippo sta proprio nel “sottinteso” a questa dinamica, esasperata nel nostro sistema culturale attuale: perché abbiamo bisogno di sentirci “migliori”, facendo recitare agli altri la parte dei “comuni mortali” e riservando a noi quella degli “eletti”, quando siamo tutti assieme a remare nella stessa povera barca rattoppata?
Non esiste sicuramente una sola risposta a questa domanda. Bisognerebbe interpellare storici, sociologi, psicologi, pedagogisti, eccecc….




Ma quello che mi sento di dire è che quando la ricerca del proprio sacerdozio va nella direzione di colmare questo bisogno di prestigio, significa che anche le energie che attiveremo saranno focalizzate praticamente sul nostro orgoglio, per farla semplice. Il che, più che servire una causa, servire l’altro, servire Dea, Dio o gli Dei, tratta invece di servire uno dei lati peggiori del nostro essere. Dov’è la crescita?
Può anche essere che molti dei nostri riferimenti antichi (non i miei, ma il neopaganesimo e il Movimento della Dea per fortuna sono mondi vasti e guai ad aspirare a un’unica ortodossia!) avessero caste di eletti e sacerdoti. Un mondo antico, ma probabilmente già patriarcale, è quello in cui ogni cosa è organizzata secondo rigide gerarchie di potere. Non esiste un "neutro", un "è naturalmente così". Quindi è tutto modificabile!
Vero è anche che il nostro mondo di oggi ha realtà e bisogni ben diversi da qualsiasi mondo di “allora” (e il numero degli abitanti umani ne è il primo esempio).


Cosa rivendico dunque?
-Per prima cosa, parto proprio da questi diversi bisogni. Non viviamo nel passato, sarebbe suggestivo crederlo, ma totalmente inutile e forse persino dannoso.
Il passato VA RICERCATO, senza tuttavia illudersi di possedere la verità su di esso. Inutile dire che, senza radici, un albero non avrebbe vita, e non potrebbe nemmeno ramificare.
Però è nel presente che agiamo e, attraverso le nostre azioni, creiamo il futuro.
Nel nostro tipo di spiritualità, che desidera superare le dicotomie spirito-materia, immanenza-trascendenza, il sacro non esclude le azioni che hanno conseguenze sul resto dell’umanità e sul nostro pianeta, e parte della ricerca spirituale andrebbe ridiscussa anche alla luce di come reperire quella conoscenza che ci permetta di esser consapevoli di come stiamo vivendo-agendo, anche a livello di conseguenze per il corpo della nostra Madre Terra. Che la spiritualità riguardi questo, è un qualcosa di tutto nuovo. O almeno, di cui non ricordiamo l'esistenza.
-In un’epoca quale è la nostra, nella nostra fetta di mondo, in cui tutti ricevono un qualche grado di istruzione, tutti hanno aspirazioni, tutti compiono delle scelte (anche quella di non scegliere, è una scelta), tutti hanno analoghi desideri per la propria dignità, e “tutti” sono veramente “tanti”, parlare di “eletti” e “prescelti” mi fa davvero riflettere.
Perché abbiamo così tanto bisogno di una guida, di un guru da seguire e servire, carismatico più di noi ma a volte persino più ignorante, quando possiamo tutti renderci conto che un reale cambiamento è possibile solo quando ogni singolo prende coscienza di chi è e di che peso le sue azioni hanno nel mondo?
Quale è il paradigma di riferimento di un modello (attuale) di spiritualità, che prende questo “capo-guru”, illuminato, voce del divino sulla Terra, attorniato da una cerchia di “aspiranti” leccaculo e via via altre cerchie gerarchicamente meno importanti, per concludere con la restante massa di seguaci più o meno passivi, ce lo siamo mai chiesti?


E’ questo il modello che vogliamo servire come sacerdotesse?


Mi viene difficile pensare alla conoscenza spirituale come ad una linea retta: 1 percorso, 1 cammino, 1 guida che porta i neofiti a scoprire le medesime tappe che la guida stessa ha percorso a suo tempo, in attesa che il “nuovo eletto” prenda il suo posto.
Concepisco piuttosto tante spirali, che si muovono sinuose danzando. Percorsi dove oltre a un’eventuale base comune ciascuno possa sviluppare ciò che è portato a scoprire; dove ciascuno rispolveri e porti alla luce i suoi PROPRI tasselli dell’infinito mosaico che è il divino, ciascuno per il dono/i doni che ha ricevuto.


Nella mia visione, minacciosa solo per coloro che desiderano conservare una qualche forma di potere, è questa una delle grosse sfide per il futuro: una diversa concezione della conoscenza che DIA VALORE all’unicità delle esperienze e mai più rivendichi di possedere l’Unica, Vera, Verità alla quale tutti devono uniformarsi.
E che sia il singolo/cercatore ad avere il diritto dell’ultima parola nell’ attribuire significato alle proprie esperienze vissute.
E che si possa lavorare assieme per restituire a temi complessi come sono “il sacro” e “il divino” tutta la loro eterogeneità.
Un lavoro duro, lungo, che inizierà solo se ci sarà la comprensione/consapevolezza di quali sono le nostre resistenze, atteggiamento opposto al censurarle. Ad esempio, riconsocendo che, per il fatto di esser stati educati qui e ora, tutti noi chi più che meno, chi chiaramente chi inconsciamente, desideriamo questo potere. Desideriamo sentirci speciale. Desideriamo essere quello che "è arrivato" (dove?). E perchè dovremmo continuare questo gioco perverso? Riproporne le regole? E se lo rifiutassimo?




Nella mia visione, la sacerdotessa è colei che, seguendo una forte vocazione e seguendo il suo proprio dono (ciascuna coi propri doni, quindi non c’è un unico modo di esser sacerdotessa, i confini sono quelli della creatività), facilita coloro che lo desiderano alla ricerca del loro proprio sentiero, o del loro proprio modo di ritornare –se desiderato e senza imposizioni- al loro sacerdozio. Contribuisce a ri-tessere sacralità nella trama dell’umana esistenza. Collabora per restituire colore a quegli antichi archetipi divini sommersi di polvere. Attraverso esperienze, attraverso meditazioni, ritualizzando e risacralizzando parti della vita, e perché no, attraverso condivisione di studi, di pensiero, di articoli che aiutino a metter in discussione un vetusto “status quo” e creare nuovi mondi possibili.
Lo può fare attraverso il rapportarsi diretto con altre persone, attraverso l’arte di qualsiasi tipo, attraverso la rete. Può contribuire all’organizzazione di eventi piccoli o grandi, o ricercare nel suo piccolo mondo di ritrovare antichi saperi a cui le grandi masse non attribuiscono più alcun peso. Una sacerdotessa scava, piuttosto che innalzarsi su un piedistallo. Non può rappresentare da sola nessuna divinità in modo riservato ed esclusivo, perché in quanto umana è parziale. Eppur è si divina, perchè nella sua parzialità custodisce un pezzo prezioso e unico del Tesoro. E un pezzo di esso, è in ciascuno di noi.
E forse non escluderei, per un futuro che sento ancora lontano, anche l’idea di un’utopica tendenza a un “sacerdozio universale”.*


Una visione provocatoria, che però si spiega solo attraverso quella scelta di impegno, ricerca e consapevolezza da parte di ogni singolo che potenzialmente potrebbe portare quel mondo migliore che l’intera umanità sogna e si auspica da sempre…. Ma nulla accade, perché ci si aspetta che qualcun altro cominci. O che cada dall'alto.
Ricerca, impegno, consapevolezza…tre parole che nella teoria e nella pratica di una sacerdotessa dovrebbero essere costante ispirazione. Sacerdotessa lo si è sempre. A lavoro o mentre si lavano i piatti, quando si fa la spesa o quando si facilita una cerimonia. E’ un impegno. Trasversale a tutte le sfere della via. Questo non va mai dimenticato.


Le strade che abbiamo tentato fino ad ora, non hanno portato a molto. Varrebbe forse la pena di sperimentare qualcosa di nuovo, anche nell’approccio spirituale? Infondo, cosa abbiamo da perdere?


*Nota: La provocazione del “sacerdozio universale” serve come estremo esempio, e mi rendo conto possa esser fraintesa. In questa utopia, l’idea è di non assistere più a una moltitudine passiva di esseri che delega ad altri le proprie scelte e responsabilità, non più quindi un mondo fatto di pochi eletti e tanti ignoranti. Bensì un impegno collettivo nella ricerca di miglioramento e una percezione/restituzione di valore diversa da ciò che conosciamo ora.
Nella nostra epoca storica passa il messaggio che il riconoscimento lo si ottiene non se si cerca e trova la propria natura, non nella ricerca di armonia, ma se si è in qualche modo competitivamente migliori in uno o più aspetti della vita sociale (lavoro, religione, famiglia, sport, dimensione del pene o del SUV ;) ). Ciò è frustrante, svilente e limitante.
Vedo necessario un recupero dell’umana dignità in un più consapevole uso del libero arbitrio, concepito come dono (di Dea, Dio, degli Dei, dell’Universo, di chi vi pare) e non certo come punizione per un qualche tipo di peccato. C'è grande fame di questo. Molti aspettano solo che gli si aiuti a "ri-darsi il permesso" di osare un approccio al sacro laddove la nostra cultura ha intimato un "tu non puoi".


“Universale” non significa “convertire tutti. La conversione è il tipico atteggiamento di arroganza mascherato da umana compassione di chi crede di avere trovato la Verità migliore e doverla offrire a chi “non ci arriva”. Nemmeno significa che debba esserci un unico “credo” condiviso. Perché allora si tornerebbe indietro a ciò che affermiamo di non volere più. Il termine significa invece che occorre superare l’idea orgogliosa che dice “c’è chi può” e “chi no”. Restituire valore alla persona, perché la persona comprenda che, di fatto, in quanto viva, sta comunque agendo in modo non privo di conseguenze: è comunque aver potere. Un potere che nella nostra cultura patriarcale, è perlopiù orientato alla distruzione: di risorse, di idee, di altre persone.. Universale quindi nel significato che ciascuno possa vedersi aprire l'accesso per prendersi il diritto di significare e sacralizzare la sua esistenza. E diventare un mattone di co-costruzione. Aiutare a riprendersi questo diritto, è il creativo compito centrale nella mia idea di sacerdotessa.

Vuoi leggere il seguito di questo post? Clicca qui!

mercoledì 31 ottobre 2012

“Halloween”: quando si critica a sproposito…


...e  le critiche ormai sono talmente tanto diventate un’abitudine, che ogni anno si ripetono a pappagallo, svuotate di ogni senso di realtà e coerenza. Un post irriverente, che cerca di offrire un punto di vista a cui non si da mai voce.


Sulle storiche origini di questa festa,  un numero sempre crescente di persone competenti ha già scritto abbastanza, grazie al cielo. Oggi, che è appunto il giorno “incriminato”, io mi voglio divertire, quindi, non tanto a ribadire che si tratta di una celebrazione riguardante l’Europa intera e che si perde nella notte dei tempi, bensì proponendo la mia confutazione di tutte le leggerezze che ormai si sentono dire ogni anno. E di cui, diciamocelo, non se ne può più!

“Halloween è una festa americana”: eccolo qui, il tormentone più amato dagli italiani. Quindi vediamo. Dire che si tratterebbe di una festa americana, potrebbe avere entrambi i significati di “nata negli USA”, e “attualmente festeggiata negli USA”.
Posto che nel primo caso, siamo davanti a una sciocchezza madornale (da chi è composto il popolo degli States, se non da una buona parte di immigrati europei, in particolar modo inglesi, che si sono trascinati con sé usi e costumi?), sarebbe vero solo il secondo significato: certo, attualmente negli USA si festeggia, ed è considerata con importanza.
E a questo punto: come mai, noi, italiani, cresciuti negli ultimi 40 anni col mito dell’America, che vestiamo Jeans e sneakers, ascoltiamo dal Jazz al rap, Jackson, Aguilera e altri artisti, importiamo Mc Donald’s e consumiamo ore di visione di film e celebri serie televisive  provenienti proprio dall’America, noi che ne imitiamo sistemi di gestione aziendale e ne acquistiamo la tecnologia, che guardiamo al popolo americano come fossero degli atlantidei, abbiamo pianto con loro l’11 Settembre e tutt’ora lo facciamo, seguiamo con il fiato sospeso le elezioni del Presidente USA.. come mai ci schifiamo se anche una  festa fosse realmente americana? Mi puzza quantomeno di incoerenza.


Vogliamo dare uno sguardo al cibo? Oh si, la nostra buona salsa di pomodoro, italianissima, parte della nostra cultura culinaria....peccato che il pomodoro sia stato importato dall'America, assieme a un bel pò di ortaggi che pure sono di quotidiano uso comune: patate, zucchine, fagioli (tranne che per i "fagioli dall'occhio", quelli esistevano già da un bel pò nel BelPaese), peperoni, mais, vaniglia...devo continuare?
La zucca si, ebbeh, è americana anch'essa... ma non mi sembra che venga usata solo per "intagliare" facce mostruose. Andiamo a dirlo a chi prepara in casa i tortelloni mantovani, che la zucca non fa parte della loro cultura?
Quasi quasi, ma si, propongo un boicottaggio di dolci e budini alla vaniglia. Eh si cavolo, "non è proprio roba nostra".

Ne consegue che, se l’essere americano bastasse di per sé a scatenare il nostro netto rifiuto, sarebbe da concludere che nella nostra cultura dovremmo rifiutare molte altre cose… che pur ci sono e ci piacciono anche. Ma siccome Halloween è una festa con origini europee, io ci andrei un po’ più cauta.


“Halloween è una festa consumistica”: qui mi scappa un sorriso. Primo: cosa non è consumismo, nella società di consumi che abbiamo creato? Si si, quella società il cui consumo sostiene l’economia, mi ricordo ancora la pubblicità che girava in TV, quella dove la persona che passeggiava con la borsa dello shopping riceveva i “grazie” di tutti i passanti. Quella società che ha inventato la “shopping terapia”, la stessa che dice “ora che c’è la crisi non posso comprare, ergo, mi deprimo”.
Ma noi siamo critici ed etici e contro il consumismo. Bene, tenetevi forte per ciò che sto per dire: è davvero Halloween la festa consumistica più terribile? O cielo, certo, ricordo benissimo di aver sentito piangere le persone perché non riuscivano più a sostenere le richieste, da parte del figlio, di un vestito da scheletro;  e le famiglie che non arrivano a fine mese non ce la fanno a permettersi il sacchettino di caramelle da donare a “dolcetto o scherzetto”. Eh si. Ho anche sentito dire che c’è chi ha contratto debiti, per comprare la zucca da intagliare o qualche altra decorazione domestica, ora che è aumentata l’inflazione …E oggi non riuscivo a entrare in panificio, tanto era la coda per comprare le ultime cose in preparazione della festa. Vuoi mettere, le famose code alle casse dei centri commerciali sotto Halloween?

Invece avete forse mai sentito di gente che dichiarasse di spendere la tredicesima in regali natalizi? Si signori. Se il consumismo bastasse in sé per “bannare” il Dolcetto-Scherzetto, il Santo Natale (che di Santo ha sempre meno), dovrebbe venire ben prima.
Si stima che nel 2011 ogni italiano in media abbia speso quasi 600 Euro in regali nel solo mese di Dicembre. Poi ci sono quelli che l’albero lo vogliono nuovo e fashion ogni anno, che le palline bisogna cambiarle perché sono vecchie, e la mia esperienza vede, nei punti vendita, scaffali di statuine presepe molto più grandi e spaziosi di quelli adibiti per i fantasmi e pipistrelli del povero massacrato Halloween. Qualcosa non mi torna.

Eppur non mi pare che nessuno intraprenda crociate contro il Natale…. Non credo sia una caso se, per gioco, digitando su “Google” le parole “festa consumistica”, il completamento automatico porterà a mettere il Natale in pole position, seguito dal nostro San Valentino(…) , e mettendo Halloween al terzo posto, ma giusto perché si ha la mania ormai di ripeterlo e ripeterlo e ripeterlo alla nausea, questo binomio “halloween-consumismo”.
Anche qui la coerenza suggerirebbe, di porsi qualche domanda sul nostro modo di festeggiare quella che per la “nostra cultura”(sarebbe ora di dire “per il mondo cristiano” scindendo da un generalizzato “nostra cultura”)  viene definita come “una delle feste più importanti” (assieme alla Pasqua).


Visto che ne ho appena parlato… argomento complesso questo: “Halloween non fa parte della nostra cultura”. Parte della confutazione a questa critica, si potrebbe rifare al paragrafo che risponde a “Halloween è una festa americana”. Mi viene solo un’aggiunta, di cuore. Prima di riempirsi di paroloni, bisognerebbe allora interrogarsi su “cosa è cultura”.
Sono stati scritti decine di tomi sull’argomento, da gente più in gamba e competente di me.
Mi limiterò a chiedere quale confine territoriale ed epocale  vogliamo usare per delimitare una “x” cultura. Molte delle peculiarità di Halloween, sono davvero somiglianti a tradizioni, del medesimo periodo dell'anno, tutt’ora esistenti in varie aree di Italia (penso al San Martin di Venezia, o all’usanza di trasformare zucche in lanterne sempre nel mio Nord-Est, ma non sono le uniche). Storicamente qui si è assistito a una forte cristianizzazione di antiche usanze provenienti da un più antico mondo agrario, più che in altre terre. Dal Natale a Ognissanti dalla Candelora alla Pasqua, non ci si è inventato da zero proprio nulla. Questa non è una mia tesi, è storia. Difficile perdersi nella notte dei tempi, vero, ma se di radici vogliamo parlare, beh, mi sembra che ci sia la tendenza a imporre alle radici di questa pianta chiamata “cultura” di rimanere abbastanza in superficie….

La cultura comunque, è lungi dall’essere un’entità statica e immutabile. Suvvia gente, così fosse, noi donne non avremmo diritto al voto, forse il nostro sistema economico sarebbe il feudalesimo, o qualcuno rivendicherebbe il diritto di tornare a vivere nelle grotte. Siiii! Più grotte per tutti!!

 Cosa sono poi “Italia” e “Europa”? Non certo delle entità geografiche-culturali sempre esistite così come sono adesso, men che meno chiuse in compartimenti stagni che impedivano la comunicazione con altre popolazioni, culture, stili di vita ecc… Eddai, la bella arte classica romana ci piace anche perché i nostri romani hanno “rubacchiato” dall’Antica Grecia; sempre dall’antica Grecia abbiamo importato una metodologia di pensiero che è stata poi usata AMPIAMENTE come base filosofica anche della religione cristiana (pur non essendo originariamente pensiero cristiano: penso al neoplatonismo ad esempio ) e dall’oriente, oltre all’architettura che rende bella Venezia e a buonissimi legumi, abbiamo letteralmente importato valori e religioni che non erano proprio proprio quelle dei nostri progenitori dell’ “Antica Europa”.
La bella musica classica italiana? Gli strumenti ad arco erano inesistenti fino al X secolo, "dalle nostre parti". Sono stati inventati e importati dall'estremo Oriente. E solo successivamente, elaborati e "fatti nostri".
Ma sarà mica che ciò che chiamiamo cultura altro non sia che una contiuna crescita, elaborazione, importazione di prodotti-idee-strategie di umani che vivono vicino a noi, che si mescolano o si pongono in rapporto dialettico con ciò che è venuto temporalmente prima di questi? Tutto fuorchè statica. Direi che il dinamismo è proprio della natura di ciò che chiamiamo "cultura".
Bene. L’idea della “fine di un ciclo (agrario, di vita umana, stagionale…)” , che è l’archetipo che sta dietro ad “Halloween”, è ben più antico di tutte queste importazioni di cui sopra.  In "Italia" era anche concretamente rappresentato dalla fine dei contratti agrari, e  per molti contadini questo periodo dell'anno rappresentava una vera fine. Spesso era necessario cambiare casa, assieme al luogo di lavoro, prima di iniziare la nuova stagione agraria. Un "capodanno" non solo celtico quindi.
Ma con l'idea della "fine di un ciclo" io credo di poter dire che anche oggi, ci facciamo i conti tutti i giorni, nell’ambito di quella cosa che si chiama “esistenza”. Fa parte del nostro bagaglio, non in quanto italiani, ma in quanto "umani". Questo, noi celebriamo.

“Halloween è macabra e deprimente, specie per i bambini, tutti questi mostri…”. Ora uscirà l’educatrice che è in me. Sciocchezze. Ai bambini, fa BENISSIMO vestire i panni di mostri, zombie, fantasmi, vampiri, e tutto ciò che fa parte dei nostri incubi più segreti (si, NOSTRI, anche della “nostra area e del nostro tempo”). Fa bene perché, in tal modo, sfondano un tabù: entrano in ciò che rappresenta le loro paure, e lo trasformano in modo scherzoso in un mondo che possono toccare, in cui vivere per un giorno. Esorcizzano. E l’effetto catartico è assicurato.

Ma signore e signori, se davvero vi spaventano queste creature provenienti dall’”oscuro mondo dell’aldilà” , me lo spiegate voi come mai Hollywood continua a stra-vendere produzioni cinematografiche più o meno horror, l’editoria si arricchisce con libri che narrano di affascinanti vampiri, storie che poi diventano film a loro volta, per TV assistiamo a serie che trattano di fantasmi, licantropi, morti che comunicano con i vivi, streghe buone e cattive, eccecc che continuano ad avere successo (perché sotto-sotto a noi piacciono tanto)?

“Halloween è una moda”. No comment. Anche l’I-phone è una moda, anche il SUV, eppur hanno un tal successo senza tutto questo casino…Halloween forse inquina meno.
In aggiunta, dire che qualcosa "è di moda" è il modo per screditare "qualcosa che non ci piace" più amato in questo paese. Di solito, lo si usa in riferimento a gusti e abitudini di una qualche minoranza che si discosta dal gregge. Un espediente retorico piuttosto facile e banale, che tenta di chiudere il discorso, usato da chi vuol tapparsi le orecchie, senza apportare argomentazioni più convincenti e senza dover ascoltare le reali ragioni dell'altro, date automaticamente per "superficiali" anche laddove non lo sono affatto. Assistiamo allora a presunte mode di "antipolitica", di "vegetarianesimo", di "religioni alternative" (ma per queste si tende a usare il termine "setta", più efficace perchè ha anche il potere di spaventare un pò evocando chissà quali pratiche proibite), di "parti naturali", di "medicina alternativa", ecc. ecc. Tutto ciò che è scomodo al pensiero dominante, finisce praticamente per vincere l'ambita etichetta di "essere una moda".

“Halloween non fa parte della cultura cristiana”. Beh, questa è l’unica critica vera. Secondo me però, non è una critica. E’ solo un dato di fatto. Con una precisazione…  In realtà la parola “Halloween” è cristianissima: l’etimologia deriva da” All Hallows’ Eve”, dove Hallow è la parola arcaica inglese che significa “Santo”: la vigilia di tutti i Santi, quindi.
Ciò che precede la cultura cristiana è, come già indicato, l’archetipo che alimenta la celebrazione stessa: “il termine di un ciclo, e l’inizio di un altro. Quello che ci sta oltre”. Un modello che ci appartiene -lo ripeto- come umanità, e  da cui lo stesso cristianesimo attinge arricchendolo di peculiari significati.


"Halloween è una festa satanista": mi ero dimenticata di questo assurdo tormentone.
Purtroppo, nella nostra Italia sempre pronta a credere alle superstizioni, qualche idiota ragazzino che non sa come altro attirare l'attenzione e quale identità sfoggiare per apparire sicuro di sè, che usa la notte di Halloween per fingersi "satanista" e imbrattare muri con scritte stereotipate tipo "666" o pentacoli rovesciati, attira i titoli dei giornali più di cose che meriterebbero davvero attenzione.
La notte del 31, Samhain, è su tutta un'altra lunghezza d'onda. Non si celebra "il maligno". Siamo dinanzi a dei culti basati sulla natura non su Satana e sulla dicotomia bene/male. Se la differenza non è chiara, il problema non dovrebbe essere mio. Ma di chi parla senza sapere di che parla....
Il paragone con l'"etnocentrismo" qui si applica benissimo. Come i primi antropologi, che chiamavano "primitivi" culture altre, solo per il fatto di non essere in grado di usare altre categorie di pensiero per comprenderle.
Stessa cosa: "non capisco, quindi ciò che non capisco è satanismo". O cielo, Medioevo proprio!
A quanto pare, branchie di movimenti spirituali che si rifanno al cristianesimo, come gli "holywings", hanno fatto di questa critica una sorta di loro bandiera. Quest'anno, pare stiano organizzando dei flashmob per impedire altre persone di festeggiare diversamente da come loro ritengono giusto.
Sembra che non siano capaci di trovare altra conferma della loro identità, che non sia il definire "l'altro" come nemico comune.  Il problema è serio per vari motivi. Il primo, perchè nel 2013 non mi pare possibile ancora ragionare con superstizioni provenienti dal Medioevo, il secondo, per il modo in cui queste persone non si rendono conto di agire allo stesso modo di coloro che mettono in piedi "guerre di religione". Il terzo, è che non accettano confronti alla pari e nemmeno spiegazioni da parte di chi "è dentro" alle correnti spirituali basate sulla natura (e, ripeto, non su SATANA, diamine!!!se poi per queste persone la natura è Satana, forse dovrebbero rivedere le loro priorità..), hanno puntualmente censurato ogni tentativo di giusta replica, e continuano a diffamare con l'accusa di "servire il demonio", inventandosi presunti "riti" osceni che non esistono.
Il quarto, comune anche a un certo sentire popolare, è che non sono capaci di distinguere tra coloro che seguono una spiritualità che, peraltro, in certi paesi è anche ufficialmente riconosciuta (Irlanda e Inghilterra, per esempio) da bravate di ragazzi in cerca di attenzione.
Ieri ho persino visto un banchetto di propaganda "anti Halloween", con una gigantografia con su scritto "la verità su halloween". La verità di chi???? Ma ancora c'è chi è convinto di possedere la Verità?? Ma dove finiremo, mi domando. Questa non è verità, è ODIO. Propaganda di odio, ad ogni costo.
I tempi delle Crociate e dell'inquisizione saranno pur finiti per qualcosa, non si può dare dell'infedele satanista a chiunque non la pensi come questi signori! Non mi pare che questo sia un comportamento in linea con lo stesso messaggio di Cristo, che anzi, ha sempre predicato la tolleranza. Il "Dio lo vuole!" lasciamo al passato. E iniziamo a imparare a tollerare anche altre filosofie.

"Tutti questi incidenti nella notte di Halloween, sembrano un castigo dai Santi". Si. Qualcuno è riuscito a scrivere questa cosa su uno dei più importanti quotidiani nazionali, lo scorso anno.
Lasciatemi dire una cosa, io mi occupo di adolescenti. No. I Santi che "castigano" non ci azzeccano nulla. Qui i problemi vanno chiamati con il loro nome. Se i vostri figli sono nel loro periodo di crisi adolescenziale, o hanno problemi di devianza, la ragione non cercatela nella metafisica. Ma nella loro vita di tutti i giorni, che forse in parte è anche la vostra.
Le bravate sono una cosa e l'adolescenza è una fase della vita. La religione è un'altra cosa.
Ci sarebbe altrimenti da chiedersi cosa avrebbe Dio contro i festeggiamenti di Capodanno, che ogni anno causano molti più incidenti della notte di Halloween. O contro l'uso delle automobili, prima causa di morte per incidente in molti paesi.
Ma... Dio che punisce, non era una cosa vecchia, non era che la venuta di Gesù ha insegnato un'altra cosa, rispetto a Dio? Ricordo male io?  ;)

Critiche inutili, perchè scatenano odio e intolleranza, piuttosto che accoglienza. E imprecise. Si farebbe una migliore figura a dire chiaramente perché, si è contrari a questa festa. E io credo potere sintetizzare queste parole mancate circa così: “Non sopportiamo che, dopo tanta fatica per sradicare delle tradizioni appartenenti a una cultura che abbiamo sempre ritenuto sbagliata, ci sia ancora qualcuno che non solo ne celebra una festività in modo così simile a quello del passato, ma che persino dica apertamente che questa demonizzazione ci sia stata.” E ancora “Non sopporto che, attraverso modi alternativi di celebrare una festa, si metta in discussione il fatto che esista una sola Verità”. Sarei molto contenta di sbagliarmi.

Se dava tanto fastidio l'idea che questo periodo evocasse feste appartenenti a religioni antiche, mi domando come mai non pensarci prima di far coincidere, praticamente di proposito, le celebrazioni di un'allora nuova religione... non solo nel medesimo periodo dell'anno, ma persino nel medesimo giorno! Ho capito "assimilare ciò che non si può distruggere", ma poi continuare a lanciare anatemi per 2000 anni, inizia ad essere noioso. Il bello, è che ciò non riguarda solo Halloween/Ognissanti.. ma anche Natale, la Candelora, Pasqua, Calendimaggio, la notte di San Giovanni...ho dimenticato qualcosa?

 Io personalmente, non credo ci debba per forza essere antitesi. Celebratela come il vostro cuore ritiene. Ma lasciate anche agli altri fare lo stesso, senza sbandierare la solita accusa di “relativismo”. L’orgoglio sa solo guastare le cose, creare dolore, e tra tutto,  forse rende "meno divini" e meno puri del celebrare serenamente "Dolcetto-Scherzetto".

Forse,  se ciò a cui assistiamo è sopravvissuto fino a qui e fino ad ora, è perché ciò che Halloween/Morti e Santi/Samhain richiama,  è un qualcosa di fortemente presente nell’inconscio di tutti noi. E onestamente, poco importa se viene festeggiato in modo cristiano, pagano, scherzoso da parte dei bambini. Si potrebbe coesistere senza fare inutili guerre perché in sostanza, ciascuno a modo suo, rende grazie e onora la stessa cosa. Cambia solo “l’interfaccia”.
Laura Ghianda, Samhain/Halloween/Ognissanti 2012 - rivisitato nel 2013